Palazzi Storici

Palazzo Castriota Solazzi

La casa dei Solazzi : un palazzo "reale"

di Luigi Petrone (dal Serratore)

Palazzo Solazzi s'incontra percorrendo via Toscano, quasi a metà della strada che collega la chiesa di Santa Maria con quella di San Luca, al numero civico 41. Una residenza privata che testimonia l'ascesa socio economica di uno dei più importanti casati di Corigliano, i Solazzi Castriota, fioriti tra il XVI e XIX secolo. In verità poco o nulla sappiamo delle vicende di questo edificio e le poche notizie rese dagli storici, scarne e marginali, sono insufficienti a tracciare qualsiasi ipotesi di lavoro. L'Amato scrive che il "dottore Baldasarre Solazzi, famigerato medico dei suoi tempi, e stipite della famiglia" viveva già nella casa sin dal 1420 (Crono-istoria, p. 74). Di certo sappiamo che la fabbrica è di fondazione antica come provano le sue fondamenta, posate sulla roccia dell'antica cinta muraria. I Sollazzo, come sono pure chiamati, vivono nell'agio tra solide finanze. All'interno dell'edificio trovava posto ogni sorta di comodità e tutto era pensato per soddisfare i bisogni di chi vi abitava. Al piano terra erano ricavate cantine ampie e capienti che custodivano ogni ben di Dio. Spaziosissima era la cucina, numerose le stanze ed aveva persine un oratorio privato che era ufficiato tutti i giorni dell'anno. Qualche notizia in più sui suoi abitanti la apprendiamo dal registro del catasto conciario del 1743. Nella "Casa Palaziata in moltissimi membri sita nella Contrada detta S. Maria", si legge, vivevano il Magnifico Baldassarre Solazzi, di 33 anni, sua moglie Isabella Cherubino e otto figli dei quali si prendeva cura una nutrice. Con loro convivevano "donna" Brina Castriota, madre di Baldassarre, uno zio capitano, cinque servi e un mulattiere; secondo le consuetudini del tempo nella stessa casa trovavano alloggio la servitù, il cocchiere ed un frate laico conventuale che aveva cura della cappella privata. Del resto don Baldassarre poteva permettersi tutto questo: con sua madre, Brina Castriota, era tra i maggiori possessori di terre e aveva denaro da spendere che "avrebbe offeso a chicchessia". Quella che oggi è via Toscano, nel '700 era la "Strada di S. Maria della Piazza" e faceva parte dell'omonima Contrada. Ma chi abitava in quel tempo su questa via? Oltre al nostro don Baldassarre, c'erano le case di "donna" Anna Salerno, vedova Severino, di Girolamo Luzzi (che aveva sposato una Sollazzo), la "casa propria palazziata" di Giorgio Castriota Scanderberg e, alla fine della strada, in piazzetta San Luca, si ergeva l'imponente palazzo Castriota, a quel tempo concesso in affitto ad Antonio De Angelis. Non solo: nei documenti dell'epoca troviamo anche i nomi di Eliseo Capalbo, di Domenico Astone, "dottore d'ambo le leggi", di Isabella Lumbisani e di Domenico Negro. Anche il duca Agostino Saluzzo vi possedeva una casa che affittava per undici ducati l'anno. Insomma la strada era un'infilata di case palazziate. Ma cos'era una casa palazziata? Con questo termine s'indicavano quelle abitazioni composte di più stanze (membri) fino a due o tre piani fuori terra, quello che noi oggi definiremmo un palazzo. E che si trattasse del quartiere dove abitava la "Corigliano bene" del tempo non lo deduciamo soltanto dai cognomi appartenenti a nobili famiglie ma anche dall'appellativo di "magnifico", il titolo che spettava ai cittadini benestanti o tenuti in considerazione con il quale troviamo qualificate le  persone residenti che abbiamo citate. Ma veniamo alle vicende architettoniche. Iniziarne a dire subito che questo edificio non nasce così come noi oggi lo vediamo. L'area su cui sorge è frutto d'acquisizioni successive che permisero ai Solazzi di assicurarsi uno spazio ampio sul quale ricavarono un cosiddetto palazzo di rifusione. La storia costruttiva con accorpamento di più unità fondiarie, trova riscontro oltre che nell'irregolarità delle planimetrie e nella disimmetria dei muri portanti, anche nella facciata su via Toscano il cui andamento non è perfettamente allineato sul fronte della strada ma che proprio in corrispondenza del portone d'ingresso muta direzione per seguire l'andamento della via. Nel 1743 don Baldassarre Solazzi pagava, infatti, 10 carlini alla Confraternita del Santissimo Sacramento di Santa Maria per il fitto di un'abitazione contigua alla sua abitazione. Un'altra porzione di casa, "incastonata nel palazzo dei potenti Sollazzo" era di proprietà, come abbiamo visto, di D. Anna Salerno (1708-1773). Quando la Salerno mori, senza successori, la casa pervenne, dopo una lunga lite con il Clero di Santa Maria, ai Compagna quali eredi universali; i Solazzi riusciranno ad accorpare questa casa soltanto dopo il 1792 quando fu acquistata da Monsignor Giovanni
Solazzi (1730-1804) per fare risistemare il prospetto del palazzo. A questa composita situazione si dovette mettere mano necessariamente dopo il 1806 quando tra l'I e il 2 agosto di quell'anno, nell'assedio dell'esercito francese che mise a ferro e a fuoco Corigliano, le fiamme s'impadronirono di un'ala di Casa Solazzi. La pianta è a sezione rettangolare con i due prospetti maggiori che insistono su via Toscano, in alto, e su via Diaz, che scorre più in basso. Il prospetto di via Toscano si solleva di un solo piano e preannuncia nel disegno quello della facciata contrapposta, cioè una composizione di finestre sormontate da timpani triangolari chiuse da panciute ringhiere. L'elemento di spicco è però l'ingresso, costituito da un portale in blocchi di pietra sovrapposti ed arco a tutto sesto inserito tra pilastri leggermente sporgenti. Sulla chiave dell'arco è collocato un enigmatico viso di pietra consunto dal tempo e un pinnacolo ad altorilievo, della stessa materia, posto sull'estradosso della chiave di volta. Una loggia, ora chiusa, termina la fronte, mentre, sul lato opposto, una grandiosa "S" coronata sotto l'imposta del cornicione, ricorda, come un marchio, l'iniziale lettera del casato. L'ingresso si apre su un androne sulla cui volta un tempo - scrive l'Amato - era dipinta a fresco "l'arma Solazzi inquartata a quella dei Castriota Scanderberg"; da qui, uno scalone, conduce al quarto nobile che occupa l'intero piano superiore. Poiché l'edificio sorge su un sito in pendenza, il prospetto che insiste su via Diaz è più elevato e vasto ed offre una quinta più ampia. Si sviluppa su tre livelli, un seminterrato a doppia altezza che occupa il piano d'appoggio e due piani fuori terra. La facciata venne completata nel secondo decennio del XIX secolo, periodo in cui trova la sua unitarietà stilistica . Al centro, domina un ampio portone d'ingresso fregiato con lo stemma del casato che, come abbiamo detto, presentava il cavallino rampante dei Solazzi "inquartato" con l'aquila bicipite dei Castriota. Questa entrata è però solo di rappresentanza dal momento che da qui si accedeva alle cantine e alle stalle. Il piano, infatti, era destinato a deposito per attrezzi, per le provviste e ai cavalli. La grande scuderia occupava l'intero piano terra e poteva ospitare sino ad una decina di animali; accanto, il fienile ed ambienti dove trovavano posto le carrozze. Altri ingressi, quattro e di minori dimensioni, davano accesso ai restanti "bassi". Ai suoi piedi, ben curato ed abbellita si estendeva un piccolo giardino d'agrumi, portogalli, perette ed altre specie di frutti. Il portone d'ingresso è sovrastato da un corteo di dodici "bucature" disposte in asse con quelle dei piani  

sovrastanti, secondo un modello d'ispirazione neoclassico molto in voga che riproponeva le soluzioni stilistiche diffuse dal Vanvitelli. Il rispetto della simmetria è rigoroso ed ogni apertura è preceduta e seguita da un'altra uguale per disegno ed ampiezza. Questo ritmo è messo in risalto soprattutto al piano nobile da balconi e finestre sormontati da timpani, alternativamente, triangolari e rotondi. Le cornici che le adornano sono lineari intorno alle finestre, con orecchioni sui balconi; tra questi spiccano quelli centrali congiunti ed uniti come fossero uno solo, come una coppia di sposi. La ricerca della simmetria è morbosa, pure gli oculi ovoidali che traforano il cornicione di coronamento sono posti perfettamente in corrispondenza di ogni bucatura. La filza delle dodici bucature (alcune "cieche" pur di rispettare il numero e la simmetria), che si ripetono per tre volte sulla facciata celano, forse, un significato recondito, quello con cui nel lessico del simbolismo cristiano si vogliono richiamare i Dodici Apostoli e la Santissima Trinità. Due paraste giganti lievemente aggettanti, concluse alla sommità da capitelli pseudo ionici e mascheroni apotropaici, rinserrano il prospetto e chiudono infine questa lunga facciata. I piani erano riservati, il primo, alle cucine, alla servitù e agli ospiti di casa, gli altri ai membri della famiglia. Il piano nobile occupava l'intero ultimo livello ed era la vera e propria abitazione padronale. L'impaginato e la sistemazione di questo piano riassume bene l'idea e l'articolazione del palazzo signorile coriglianese. Il "quartino" padronale presentava una struttura comune a molti edifici signorili. Diverse anticamere precedevano il salone da ballo che ha mantenuto immutata, con i suoi decori, la bellezza originaria; seguivano poi un susseguirsi di camere d'infilata, l'alcova e infine la cappella privata posta all'estremità dell'appartamento intatta nel suo fascino barocco. Ma chi ha disegnato l'elegante prospetto di questo palazzo? Le carte d'archivio non hanno fornito per ora un nome di un progettista. Sappiamo però che Baldassarre Solazzi (1777-1840), il III della dinastia, Cavaliere dell'Ordine di Malta e membro del Consiglio Provinciale della Calabria Cifra, era spesso a Napoli, impegnato a gestire affari ed incarichi di rappresentanza. Don Baldassarre abita sulla strada di Ghiaia in un appartamento che gli aveva concesso in fitto il duca Gaetano Chaves. Nel 1820 si trasferì in San Lorenzo in un edificio appena acquistato, che fece sistemare dall'architetto Vincenzo Pirri ed abbellire dai pittori Giuseppe Rossi, Michele Converti e Paolo Innaco. Il desiderio di dare visibilità in maniera più confacente ad un accresciuto prestigio deve aver suggerito al Solazzi di ingentilire pure la sua dimora in Calabria. L'ostentazione del rango condusse ad un vero e proprio restyling di questo edificio secondo modelli molto in voga nella capitale del Regno che offriva un vasto repertorio a cui attingere. Come non rilevare, infatti, e solo per citare un esempio a noi familiare, l'assonanza di questa facciata con quella più monumentale del palazzo del duca Saluzzo in piazza San Domenico Maggiore a Napoli; persine le paraste che corrono per tutta l'altezza e gli oculi che traforano il cornicione terminale sembrano stati ripetuti dal Solazzi per il suo palazzo di Corigliano. Ma il Solazzi non aveva una piazza dove far vedere il suo palazzo né poteva permettersi di arretrare la facciata. L'anonimo architetto allora lasciò le mura lisce e ne traforò la facciata con bucature cadenzate e ritmiche da molti balconi (elementi ricchi di accentuazione e di "conquista dello spazio cittadino"), ne ispessì gli angoli con alte paraste e pose al centro un alto portale sopra il quale espose le armi del casato. L'impaginazione che ne derivò è un'adesione canonica ai modelli neoclassici, un edificio monumentale in cui il segno architettonico diviene segnale ottico dove "la lettura obliqua del palazzo, posto spesso in strade strette, è la regola più frequente" (G. Labrot, Baroni in Città, p. 72). Il palazzo fu pensato per chi vi abitava ma anche per chi lo guardava, che rimanevano colpiti dal contrasto con gli altri edifici accanto da un regolare ed unitario isolato la cui massa compatta subordinava le costruzioni adiacenti. Il disegno era compiuto e il palazzo poteva mostrare ora la forza e la ricchezza della famiglia. L'edificio parve perdere d'un colpo la sua bellezza quando un grande sussulto colpì Corigliano il 4 ottobre 1870; le scosse di quel terremoto continuarono per un mese intero e molti furono gli edifici danneggiati. Il Conte d'Alife, erede dei Solazzi, oltre al suo bel palazzo di via Toscano ebbe qualche danno anche alla Casa detta "Castriota". Ma i sussulti non dovettero danneggiarlo più di tanto se a distanza di qualche anno uno studioso locale scriverà che è "vasto ed elegante ed il suo interno è davvero ammirabile. In esso, oltre di una ricca biblioteca, vi si trova un piccolo museo botanico e geologico, ed inoltre molti svariati oggetti antichi, rinvenuti in alcuni scavi fatti in quel di Sammauro e Sibari. Pregevole ancora è la cappella nell'interno di questo palazzo" (Giacomo Patari, Cenno Storico, 1891, pp. 31,32). Così giungerà agli inizi del secolo scorso, sino al momento della vendita nel 1933, con i suoi arredi ottocenteschi, i bellissimi armadi della libreria sui cui sportelli erano dipinti i nomi delle materie (botanica, storia, letteratura, filosofia), quadri, reperti archeologici, una rara collezione di libri di svariate scienze e il prezioso erbario raccolto dal botanico e naturalista Domenico Solazzi Castriota (1810-1860) per buona sorte sopravvissuto. Dal Palazzo Reale di Caserta (la Reggia), il capolavoro architettonico di Luigi Vanvitelli, tantissimi edifici trassero esempio ed ispirazione. Ed è suggestivo pensare, sebbene non si abbia alcun riscontro documentario, Uno dei mascheroni apotropaici che ornano i quattro angoli del palazzo. che dallo stesso ambito culturale del progettista della dimora napoletana del Solazzi provenga anche il disegno per questo palazzo calabrese che ben riassume quell'ideale di fasto e magnificenza degni della capitale, come un vero palazzo reale, a Corigliano. Nel polimorfo e variegato scenario degli edifici cittadini che davano forma a quel paysage tanto caro ai viaggiatori del Grand Tour, l'apparire della regolare ed equilibrata facciata di questo palazzo imprigionava lo sguardo dello spettatore e non lo lasciava sfuggire; oggi prevale il disinteresse e siamo smarriti, incapaci di saper valorizzare e recuperare quel passato straordinario. Ma pur amareggiato per i mutamenti poco rispettosi dovuti all'inclemenza del tempo, questo edificio mostra ancora la sua nitidezza compositiva. Lo guardiamo e ne ammiriamo il susseguirsi delle finestre che, come in un gioco, sembrano rincorrere le vanitose balconate affacciate verso il mare.                  

Palazzo Fiore

L'elegante palazzetto del dott. Vincenzo Fiore

di Luigi Petrone(Il Serratore n.91/2012)

Sulla piazza del castello, all'imbocco di via Tricarico, si trova una signorile dimora che cerca di farsi spazio tra il più antico palazzo Abenante e un lungo caseggiato che le sta di fianco. Sulla sovrapporta a raggiera del portone d'ingresso si osserva la scritta "V. Fiore", ad indicare che quella era l'abitazione del dottor Vincenzo Fiore, uno degli uomini più in vista della città nella prima metà del Novecento. Vincenzo Fiore era nato a Corigliano nel 1868 e aveva studiato a Napoli, laureandosi in Medicina nel 1895. Ritornato in patria ottenne la nomina da parte del Comune di ufficiale sanitario, incarico che svolse per circa un quarantennio. Si fece apprezzare per la sua bravura professionale e per l'attenzione che dedicò alle classi meno abbienti, impegnandosi a fondo nella lotta antimalarica fornendo il chinino a chiunque ne avesse bisogno nell'affollato ambulatorio sorto alla marina di Schiavonea (1906). Trovò sempre il tempo, comunque, come un bravo medico deve fare, per frequentare una volta l'anno l'Ospedale de' Pellegrini a Napoli per tenersi aggiornato nelle più avanzate pratiche cliniche. Forse proprio durante uno dei suoi viaggi a Napoli ebbe l'idea di costruirsi, a Corigliano, una dimora simile a quelle che osservava nel capoluogo partenopeo. Questo desiderio divenne realtà quando riuscì a convincere il suo amico barone Francesco Compagna (di cui era anche il medico personale  durante le sue permanenze a Corigliano) a vendergli un pezzo di terreno sopravvissuto al fossato del suo castello. In quel luogo il dott. Fiore fece costruire l'elegante palazzetto, negli anni che vanno dal 1904 al 1910, seguendo le indicazioni progettuali dell'ing. Leonardo Cimino. L'Amato, cronista locale, scrive che già Agostino Saluzzo (1608-1700), nel corso del Seicento, aveva iniziato a spianare il fossato cedendo "...al Comune tutto il fossato del lato Nord, ed il Comune vi fece costruire una strada, che ora dicesi degli Orefici" che andava a collegare la piazza del Fondaco con quella del Muro rotto. Sino alla fine dell'Ottocento il luogo appare ingombro di un muraglione e d'arborature che si fondono e si confondono con il giardino degli Abenante. Un'immagine fotografica dei primi del Novecento (1905) mostra ancora avanzi di muri di contenimento e resti di un fabbricato, addossato a palazzo Abenante, alto e ingombrante del quale non è chiaro se fosse un'ala, poi demolita, del suddetto edificio. Le scuderie dei Compagna, anch'esse ormai scomparse, sorgevano su un lato del fossato da dove erano collegate alla Cavallerizza. Quando poi si rese necessario sistemare al meglio la strada (via Tricarico) che da piazza Cavour portava a Corso Principe Umberto, demolite le scuderie al loro posto fu edificato il caseggiato lungo e stretto che ancora si può vedere; ne residuò un pezzo di terreno buono né a farvi un palazzo né ad ampliare la piazza. Con la sistemazione della strada e di piazza Vittorio (con l'Unità d'Italia lo slargo del Muro rotto era stato intitolato al re Vittorio Emanuele II) questa zona era diventata, difatti, grazie anche alla presenza del castello, il luogo preferito dal notabilato cittadino e qui avevano sede il Casino dell'Unione, la Tipografia del Popolano, l'Ufficio Regio delle Poste e Telegrafo. L'indagine su palazzo Fiore soffre le difficoltà che s'incontrano negli studi poco documentati. La tipologia rispecchia la tradizionale edilizia signorile otto-novecentesca. Tuttavia, diversamente da altri fabbricati, questo edifìcio è un unicum rispetto all'edilizia circostante. Posto quasi di sbieco tra casa Abenante e quella di via Tricarico, non potendo estendersi verso la strada, la pianta del nuovo fabbricato venne accresciuta verso il lato di levante. Ne risultò un immobile con la facciata fuori sesto, debordante rispetto alla linea ideale che avrebbe congiunto le facciate dei palazzi che la serrano ai lati ma, tuttavia, perfettamente inserita nella scena urbana. Veniva così a completarsi una "quinta" cittadina che concludeva in maniera "naturale" la cortina di case che nel tempo era sorta ai piedi del castello. La nobile casa degli Abenante, rimasta a lungo e per secoli, a rendere omaggio al maniero che per mole e storia le incombeva addosso, ora non era più sola. Il palazzo presenta una struttura planimetrica pressoché quadrangolare costituita da un corpo centrale che si continua, sul lato posteriore con un giardino interno; questo assume un'importanza particolare nella qualificazione e vivibilità dell'edificio consentendo agli abitanti di condurre una vita all'aperto senza invadenze visive. L'edificio planimetricamente e funzionalmente è diviso in due aree, una con destinazione commerciale situata al piano terra, l'altra ai piani superiori adibita a residenza2. L'inserimento di questa fabbrica su un terreno in pendìo impose una pianta chiusa. La costruzione si sviluppa su due livelli dal lato della strada, che diventano tre sul lato opposto. La facciata è ritmata da un semplice ordine di cinque finestre. Al piano terra un elegante portone dall'arco bugnato conduce al piano superiore dove è posta l'abitazione vera e propria. La facciata posteriore si eleva su quattro piani e si affaccia su un piacevole panorama rivolto verso il mare. Il piano inferiore è occupato dalle cantine e si apre direttamente sul giardino, mentre i quarti abitativi sono posti sopra. Entrambe le facciate sono aperte da balconate affinchè la luce possa invadere l'edificio nella sua totalità e dare respiro e leggerezza alla fabbrica. L'interno fu decorato con affreschi murali, oggi scomparsi, nel salone e in varie stanze. Un posto speciale infine Fiore riservò al suo studio ingombro di molti libri di medicina a contendere lo spazio a libri d'arte e di letteratura. Nel 1931 Fiore chiese all'amico e geniale artigiano - artista coriglianese Natale Amica (1893 -1960) di abbellire il suo palazzo. L'Amica non si risparmiò e diede il meglio di sé decorando gli interni con affreschi murali, oggi purtroppo scomparsi, che lo impegnarono per lungo tempo. Infine rese più graziosa la facciata di levante, realizzando un'audace balconata - una "loggia" - sostenuta da un ingegnoso ed elegante doppio appoggio a gola egizia dal profilo che s'incurva e si aggetta. Amici ed ospiti illustri frequentarono questa dimora, dove erano "di casa", come si suole dire, il barone Scipione De Rosis e l'amico carissimo Francesco Maradea che a Fiore inviava in anteprima i suoi scritti per riceverne impressioni e sostegno. Il dottor Vincenzo Fiore visse in questa casa sino al 1945 anno della sua morte. Da più di vent'anni la piana era stata bonificata e restituita all'operosità di contadini, agricoltori, commercianti. Vogliamo immaginarcelo seduto nella sua loggia, a godere della brezza, ora benigna, che il vento spingeva dalla marina per ripagarlo, forse, degli anni spesi a combattere i danni della malaria. Oggi è il dott. Domenico Brunetti a conservarne con decoro la storia e il ricordo.  

I dieci libri più venduti della settimana

Gianrico Carofiglio

La disciplina di Penelope

Mondadori

Valérie Perrin

Cambiare l'acqua ai fiori

E/O

Alicia Giménez Bartlett

Autobiografia di Petra Delicado

Sellerio Editore

Julia Quinn

Il duca e io. Serie Bridgerton. Vol. 1

Mondadori

Alessandro Barbero

Dante

Laterza

Toshikazu Kawaguchi

Finché il caffè è caldo

Garzanti

Francesco Costa

Una storia americana

Mondadori

Ilaria Tuti

Luce della notte

Longanesi

Luca Ricolfi

La notte delle ninfee

La nave di Teseo

Toshikazu Kawaguchi

Basta un caffè per essere felici

Garzanti

Classifica della settimana dall'

18 al 24 gennaio 2021

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